VERNICI,SMALTI e

GIi studiosi ritengono che circa 5000 anni fa gli oggetti fossero già ricoperti da una vetrina. In Egitto fin dal Nuovo Regno (2000 - 1500 a.C.) si produceva una ceramica ricca di sali di sodio solubili; asciugandosi il corpo argilloso presentava sulla sua superficie una pellicola vetrosa, formata dalla fusione in cottura, ad una temperatura di 850-950 °C, dei sali contenuti nell'argilla. I Greci diffusero la loro ceramica e le loro tecniche in tutto il bacino del Mediterraneo. La partizione delle zone dei vasi rispondeva sempre al principio della razionalità, componente fondamentale della cultura greca. La tecnica decorativa era basata sull'applicazione di engobes ricchi di alcali, le cui filettature e graffiti, insieme alle campiture, non dovevano subire modifiche dovute al capricci del fuoco o delle vetrine. Queste ultime, che i Greci senza dubbio conoscevano, ma che rifiutavano perché appartenenti ad un mondo culturale diverso erano usate nel vicino Oriente. Anche i Romani erano interessati a rappresentare una realtà chiara e architettonica ed anch'essi avevano esperienze sia di terra sigillata che di vetrine piombifere o alcaline, frutto queste ultime dei contatti avuti con l'Egitto conquistato. Più tardi (IX secolo d.C.), nell'intento di imitare la porcellana cinese, si intraduceva nella vetrina dell'argilla bianca e dopo dello stagno, ottenendo uno smalto bianco che ricopriva l'oggetto. L'uso delle vernici alcaline e piombifere e dello smalto stannifero si diffuse lungo le coste dell'Africa (grazie alla conquista islamica), quindi alla Spagna, alla Sicilia. In Cina, Corea e Giappone, fin dal 500 a.C., si usavano smalti che raggiungevano la temperatura di 1200-1350 °C, temperatura che poteva raggiungersi soprattutto per il tipo di forni che si erano sviluppati in quei paesi (orizzontali e a fiamma rovesciata). Gli smalti primitivi erano costituiti essenzialmente da argille, feldspati e ceneri di legna. Gli antichi vasai italiani usavano fare le vernici e gli smalti stanniferi con due elementi base chiamati marzacotto e calcino o piombo accordato. Il marzacotto era composto da sabbia silicea pura, tartaro di botte e feccia di vino bruciata. Il tartaro e la feccia fungevano da fondenti. Più tardi il fondente venne sostituito da carbonato di soda e di potassa,sale da cucina e piombo. Questi elementi venivano fusi insieme in un contenitore posto in fondo al focolare del torno. Si otteneva una massa vetrosa (fritta alcalina o alcalina plombica) che macinata e sciolta in acqua costituiva la vernici, vetrina o cristallina. Per ottenere lo smalto bianco si mischiava al marzacotto (fritta) un composto di piombo e stagno fusi insieme in un apposito forno fino a completa ossidazione. Si otteneva una polvere granulosa e biancastra che veniva macinata finemente, detta calcino o piombo accordato. Il marzacotto e il calcino, macinati finemente, sciolti in acqua costituivano lo smalto bianco.

 

COLORI

Il verde ramina, il giallo e il manganese erano i colori della tavolozza dell'antico vasaio; più tardi si aggiunsero il turchino e i gialli di antimonio e ferro. Per il turchino si ricorreva al levante, da dove i mercanti veneziani importavano la zaffera (silicato di cobalto) e il lapislazzuli. Il manganese si trovava in piccole lastre in molti luoghi, ad esempio, presso Monte Feltro in Toscana. Per l'ossido di rame si ricorreva ai calderai: si macinavano le piccole scaglie che si staccavano dalle lastre di rame battuto o si raschiava l'ossido che si formava sulla superficie del metallo. Si bruciava il rame dentro a recipienti in terracotta posti nel forno o sulle bocchette di uscita del fuoco. Si otteneva il solfato di rame cuocendo nel forno zolfo, sale e rame in un recipiente. La polvere granulosa che si otteneva veniva macinata finemente. Per tendere il colore più fusibile, in modo che risultasse ben disteso sulla superficie dello smalto, si mischiavano agli ossidi percentuali di piombo calcinato, feccia di vino e sale comune. Il giallo veniva ricavato dalle squame di ferro che cadevano dal ferro rovente battuto dal martello del fabbro; era un giallo piuttosto scuro. Si adoperava anche una pietra spugnosa di colore giallastro (minerale di ferro) che si trovava presso il Monte Nerone (Urbino) che veniva chiamata ferraccia. Il Piccolpasso scrive: "Togliesi ruggine di ferro, e la migliore è quella che si coglie dintorno alle ancore delle navi, questa si cuoce in vaso biscottato; molti sogliono invocarla e poscia spegnerla in urina". L'urina forniva l'ammoniaca che dava al ferro un alto grado di ossidazione. Questi colori venivano poi mischiati tra di loro per ottenere tutta una serie di altre tinte e mezzetinte. Il rosso è l'ultimo colore che giunge ad arricchire la tavolozza dei vasaio decoratore ed è Il più delicato e difficile da ottenere. Giambattista Passeri, altro studioso italiano del XVIII secolo, scrive nel suo libro una ricetta per ottenere il rosso: "Si prendevano sei once di terra rossa, tre di ferretto, tre di cinapro minerale ed u n ottava parte di oncia d'argento calcinato; il tutto veniva macinato con aceto rosso fortissimo e messo a fuoco entro dei vasi, finché l'aceto fosse evaporato. Si rimacinava di nuovo con altro aceto forte e con quello si dipingeva. Il rosso di maiolica, anch'esso descritto dal Piccolpasso, era una miscela di terra rossa, bolo armeno, ferreto di Spagna (ossido di rame nero), ossia rame bruciato con lo zolfo, con l'aggiunta di una piccola quantità di cinabro.Il colore bianchetto che veniva usato dal vasai faentini nel XV e XVI secolo, si otteneva da stagno molto puro versato allo stato liquido su un mortaio di legno.

 

Da CERAMICA VIVA di Nino Caruso Ed. HOEPLI

 


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